Non si comincia a coltivare fin da subito: è un processo lento, dovuto al fatto che si devono trovare dei metodi per poter coltivare quelle piante che magari crescono spontaneamente in natura. Per centinaia di migliaia di anni, nel Paleolitico, gli uomini vissero cacciando e le donne raccogliendo frutti e radici selvatiche; solo circa diecimila anni fa l’uomo si è staccato da queste attività aleatorie addomesticando le piante che gli servivano come sostentamento: nacque così l’agricoltura.
Cominciò un nuovo periodo detto Neolitico: nella terra arida  il raccolto, soprattutto all'inizio, era piuttosto magro; invece in zone più fertili, nei pressi dei fiumi, si trovavano frutti e semi molto utili per l'alimentazione, e anche i tuberi garantivano un'adeguata alimentazione.
Si trattava di un tipo di agricoltura che oggi potremmo definire "agricoltura sostenibile" che rispettava l'ambiente, la biodiversità e la naturale capacità di assorbimento dei rifiuti della terra. Con un termine più attuale, si potrebbe parlare di permacoltura i cui principi sono quelli di prendersi cura della terra e avere cura delle persone, limitando il consumo alle reali necessità.
Molte tribù diventarono sedentarie; altre civiltà restarono nomadi: gli agricoltori si insediarono in una zona forestale, tagliarono la vegetazione spontanea e bruciarono la vegetazione secca per ripulire il terreno dove venivano poi  coltivate colture alimentari; il fuoco, oltre a bruciarlo, concimava con le ceneri il terreno, dove venivano coltivate piante.

L'agricoltura è stata come un filo sottile che ha guidato l'umanità nel suo sviluppo: si inventarono degli strumenti per facilitare la coltivazione come una rudimentale zappa per preparare la terra, una specie di scure per tagliare alberi e radici e un piccone per seminare.
Tra le piante coltivate dall'uomo il frumento è quella che meglio di qualunque altra può raccontare la storia del genere umano e la sua importanza è testimoniata dalle credenze popolari degli antichi popoli che lo ritenevano un dono degli dei.

Già attorno al X millennio a.C., la raccolta di frumento primitivo, farro e orzo, era pratica comune in Iraq, Siria, Turchia, Iran e Palestina. La diffusione dell’agricoltura e delle prime coltivazioni di frumento dalle regioni della Mezzaluna fertile verso l’Europa fu relativamente veloce: verso il 6000 a.C. si erano consolidati villaggi agricoli lungo le coste del Mar Egeo, e dalla Grecia passò in Italia.
Solo dopo la scoperta dell'America giunsero il mais, la patata, il pomodoro, il peperone, la zucca, il fagiolo, l'arachide.

Al nord Italia si andò sviluppando una gestione capitalistica delle aziende agricole che aveva nel Piemonte e nella Lombardia le regioni trainanti: era un'agricoltura "intensiva" che si riproponeva di ottenere il massimo rendimento per ettaro, e quasi più nulla c'era di un'antica agricoltura rispettosa della Natura.
Sulle regioni del meridione, Campania, Calabria, Puglia, nel XIX secolo si produssero studi giuridici: su di essi si formò Cavour, che rilevò il ruolo fondamentale in campo agrario dei capitali apportati dalla borghesia. Il sud Italia era caratterizzato da due paesaggi agricoli: le aree a  seccagno e le aree irrigue; nel primo dominavano le colture estensive adatte a climi aridi: grano, olivi, viti, mandorli; nelle seconde, ed erano le zone costiere, si praticava un’agricoltura intensiva su piccole aree  e si coltivavano alberi da frutto, cereali, foraggi, piante industriali, fiori. 
Ma ancora all'inizio del '900 le regioni del sud erano costellate di  feudatari padroni di estesi latifondi; questi latifondi, anche per le condizioni climatiche caratterizzate dalla siccità e l’arretratezza delle tecniche colturali, erano coltivati in prevalenza con frumento e in parte adibiti a pascoli. Inoltre la borghesia meridionale non era disposta a reinvestire i propri profitti nelle imprese agricole, che pertanto rimanevano in condizioni di arretratezza produttiva rispetto al nord Italia. Si trattava quasi esclusivamente di agricoltura di sussistenza cioè di coltivazioni praticate con lo scopo di ottenere il cibo sufficiente per sfamare i soli membri della famiglia contadina. Il sud nel corso della storia si è visto in qualche modo "costretto" a svilupparsi sotto il profilo puramente agricolo.

Ancora oggi, soprattutto nel sud del mondo, la metà della popolazione attiva mondiale è occupata nel settore primario, con forti differenze nei Paesi: dove prevale la meccanizzazione gli occupati sono pochi, negli altri sono moltissimi.
In molte zone dell'Africa l'aridità del suolo non permette lo sviluppo dell’agricoltura, che non risulta quindi sufficiente a soddisfare il fabbisogno interno, sebbene nel settore siano occupati quasi tre quarti della popolazione.
Le zone coltivabili sono solo l’11% del territorio mondiale e sono mal distribuite: in Europa il 30% del terreno è produttivo, invece le terre coltivabili dell'Africa sono solo il 6%: la temperatura è essenziale per l’agricoltura, e nei lunghi e frequenti periodi di siccità, la carestia provoca la morte di migliaia di persone; la bassa fertilità del terreno e l’erosione del suolo, costringono ancora a coltivare un solo cereale.
Si parla così sempre più spesso di un’"agricoltura biodinamica" cioè una forma di agricoltura nuova atta a fornire alimenti e nel contempo per esempio accrescere e mantenere la fertilità della terra: l’uso di fertilizzanti naturali o artificiali può migliorare le condizioni del terreno, e un altro metodo per rendere più fertile il suolo è la rotazione delle colture che consiste nell'alternare ciclicamente la specie coltivata in un campo.